L’altare della Patria è frutto di un delitto.
La sua costruzione iniziò nel 1885 e si concluse nel 1911, diventando uno dei simboli della grandezza e della potenza del (allora) Regno d’Italia.
Ma la nascita del Vittoriano comportò la morte di una vasta area di Roma. Vennero demoliti svariati quartieri storici, tra cui il quartiere medioevale del Campidoglio, il quartiere ebraico e l’antico ghetto, realizzando anche il percorso che porta dall’Altare della Patria sino al Colosseo (la via dei Fori Imperiali, nel “32 Via dell’Impero).
Come normale che fosse, il nuovo spaventa: la distruzione di queste aree indignò l’opinione pubblica e scatenò molte proteste da parte dei cittadini di Roma, che si batterono per la loro conservazione.
Una vera e propria uscita forzata dalla zona di comfort.
Il parallelismo con la frequente necessità di distruggere per crescere è evidente.
Spesso le aziende devono eliminare vecchi prodotti o modelli, procedure, identità visive, modi di fare per fare spazio al nuovo, al progresso.
Senza una distruzione spesso non si riesce a soddisfare le esigenze dei consumatori e rimanere competitivi sul mercato.
Ma… c’è un ma.
Bisogna distruggere con cognizione di causa, senza abusare e voler “rottamare” tutto arbitrariamente.
Spesso il vecchio non significa obsoleto, ma è parte integrante della tradizione.
Qualcosa di prezioso, come la storia di un prodotto o di una zona.
Senza distruzione non c’è crescita? Dipende.
Vale la pena distruggere per godersi uno spettacolo come questo?
Avoja.